MARTINI, LE PAROLE DI DON ANGELO CASATI

MARTINI E LA CITTA’
di don Angelo Casati

don Casati: "Martini, uomo del confine"
don Casati: “Martini, uomo del confine”

Permettete che io vi confidi perché ho accettato, io prete così carico di anni, di essere qui con voi questa sera. Per due o tre motivi, primo perche coloro che mi invitavano mi dicevano che non sarebbe stata una conferenza, ma un raccontarsi di lui, un vescovo che abbiamo amato. Secondo perché mi invitavano in un auditorium laico e non in una chiesa, cioè in uno spazio dichiaratamente di tutti, fuori da ogni sequestro. Come si addice alla figura del cardinale.

E poi a parlare di città, di questa città che lui ha amato e che noi amiamo. Penso ai suoi occhi che si accendevano ogni volta che si parlava di città. Mi ricordo l’anno in cui mi invitò a parlarne alla cattedra dei non credenti, quella cattedra che aveva genialmente  inventata. Alcuni mi dissero ”Sai come ti guardava mentre parlavi..” Il suo sguardo si accendeva quando si parlava di città. Anche  questa sera, penso che il suo sguardo si accenda -sono presuntuoso-  vedendoci qui a parlare di lui, ma anche della città che lui ha amato e che noi per fedeltà amiamo. Della città e delle sue strade.

Ricordo che alla sua morte alcuni giornali ripresero alcune mie parole che erano apparse sul portale della diocesi in cui ricordavo l’amore di Martini per la nostra città:

 Sei scritto  -scrivevo-

 come sigillo sul cuore

 e sul braccio.

 Hai amato queste strade

 hai pianto

 su questa città.

 Ci lasci

 -ed è testamento-

 la lampada della Parola

 e il pane del volto.

Le strade della città furono la sua prima presentazione, il suo ingresso in Diocesi. C’è chi organizza ingressi trionfali, dove si è circondati da scorte e da apparati, da protezione di transenne e innalzamenti di palchi, noi lo vedemmo entrare senza processioni, senza bardature con la nudità del vangelo. Confuso tra un popolo. Unica ricchezza e forza nelle sue mani il libro delle scritture sacre. Aveva scelto la strada. Ed era un programma, niente separazioni, la immediatezza, niente appartenenze o sequestri, la strada è di tutti, la strada è laica, come questo auditorium. E’ di tutti, la strada,  non ci sono folle clericali pilotate per l’osanna, esisti, conti,  se hai qualcosa da dire, da dire in una lingua che non è l’ecclesialese, ma la lingua di tutti. Le strade dove avviene di tutto, avviene la vita. E tu sei pastore acceso dalla passione per tutti. Il pastore non cammina a lato, cammina dentro.

Vicino dunque il cardinale  sino a portarsi addosso l’odore delle pecore, per stare ad un’immagine suggestiva di Francesco, il vescovo di Roma. Vicino nell’odore delle pecore. Vicino. Quando uno parla senti dove vive, se nei palazzi o presso i fuochi del gregge. Vicina la sua parola, perché veniva dall’abitare dico spiritualmente, mentalmente e con il cuore, le vicende di un gregge in cammino.

Ricordo che proprio l’ultima sera di quella sessione della “cattedra dei non credenti” che aveva a tema la città ci fece questa confidenza, che mi sembra racconti la condivisione delle strade.

Una sera” disse “in cui tornavo in macchina da non so quale incontro ero probabilmente stanco e quindi un po’ incline a quel cattivo umore che ci prende senza che ce ne accorgiamo dopo una serie di impegni faticosi. Quando ci si lascia un po’ andare, la mente si rilassa, ma nello stesso tempo emergono le ombre. Ricordo che mentre ero seduto in macchina vedevo le case venirmi come addosso, una dopo l’altra, e nelle case gli appartamenti, con dentro tanta gente che si indovinava dietro le tendine, dietro le luci delle finestre; e in ogni casa tanti pesi da portare: litigi, frustrazioni, problemi, malattie, morti. Tutto questo mi dava un senso di peso che mi schiacciava. Mi sentivo come gravato, soffocato da quella moltitudine di caseggiati, di persone, di problemi; sentivo riaffiorare l’angoscia per i morti del terrorismo, per tutti gli uccisi dalla criminalità e dalla droga, per i disperati, per tutti quelli che in quella notte erano stanchi di vivere. Sentivo questo peso insopportabile senza riuscire a trovare un ordine, un senso, un modo di tenere in mano una simile marea di problemi. E mi prendeva un senso di impotenza quasi fossi vinto e schiacciato da un senso di impotenza debordante, eccessivo che si faceva beffe di me” (Questa benedetta maledetta città” p.118).

La tentazione poteva essere la fuga dalle strade per difendersi in spazi protetti, in cenacoli chiusi. C’è sempre questa tentazione della fuga, del tenere le distanze. Era successo, fin dall’inizio,  dopo la morte di Gesù, a quei due discepoli, Cleopa e il suo compagno di viaggio, in fuga da Gerusalemme, ma in incognito Gesù si affiancò a loro e dopo che ebbe spezzato con loro il pane nella locanda, con il cuore che ancora ardeva fecero ritorno alla città. Così Martini ci parlava, faceva ardere il cuore, spezzava con noi il pane e noi, spesso in fuga nel pensiero, facevamo ritorno alle strade, alle case, alla città.

Ricordo che lui diede un titolo intrigante a una lettera che scrisse proprio pensando alla città di Milano: “Alzati e va’ a Ninive, la grande città”, riprendendo la figura di Giona, un altro profeta in fuga, che si rifiuta di andare a Ninive, giudicandola città corrotta e cieca e sorda, impenetrabile ai richiami dello spirito. E Dio – che ha uno sguardo ben diverso da quello di Giona, diverso dal nostro, malato di miopie, di giudizi astiosi e meschinità – quasi lo costringe ad andare nella città.

Il cardinale camminava con noi per le nostre strade. Camminava e creava direzione con il vangelo, creava riferimenti, infondeva energie, infondeva fiducia nel cuore.

Non è stato mai un uomo di spettacolo, non gli apparteneva la teatralità non gli si addicevano i palchi. Non so se qualcuno di voi ricorda:, quando gli facevano interviste, non guardava fisso dentro l’obiettivo, lo sfuggiva, quasi per una sorta di timidezza. Gli stava a cuore il problema, andava oltre. Gli interessava la direzione, dove muovere oggi i passi. Lui conosceva la complessità della nostra vita, non la sfuggiva. Cercava con noi, davanti a Dio, un’uscita.

Lui era diverso. In un mondo di teatranti, di parole vuote ed effimere, lui cercava sempre una luce, uno spiraglio di luce dal Vangelo. Era fuori coro.

Ricordo la sera di quel giorno in cui la città, Milano, fu scossa dalla notizia di un ordigno rinvenuto tra le guglie del Duomo. Dentro un coro disgustoso di politici che cavalcavano strumentalmente la notizia, tutti a sdottorare alla ricerca di voti, loro la vera bomba, velenosi ed eversivi, detonanti più della bomba sul Duomo, lui l’unico a indicare sentieri di unità, tessuti di umanità e di comprensione. Lui diverso, unica luce in un panorama di squallore.

Non stava nei recinti, era uomo del confine, era uomo del dialogo. Non del monologo, che è la brutta versione, purtroppo ancora in uso della  parola dialogo. Che cosa soggiace infatti alla iniziativa, cui dette nome “Cattedra dei non credenti”, se non la convinzione che anche i non credenti possono avere qualcosa da insegnare, e che noi non siamo la verità assoluta?  Abbiamo compagni di viaggio a cui dare e da cui ricevere.

Ebbene,  vorrei aggiungere, ci invitava a stare sul confine. Occorrono donne e uomini del confine.

Di confini e di cristiani sui confini parlava nella lettera a cui prima accennavo: “Alzati e va’ a Ninive, la grande città”, là dove scrive: ”Sono molti oggi a Milano coloro che ogni giorno silenziosamente passano l’arduo confine tra l’oscurità e la luce, tra la penombra e il calore del sole, come tanti sono quelli che nello stesso tempo passano silenziosamente la frontiera tra la verità e il buio, tra la certezza e l’incertezza, il dubbio, la sfiducia. La presenza di molte e volonterose guide, preti e laici, attenti alle frontiere della fede, scoprirà questi sconfinamenti, consiglierà gli smarriti, conforterà gli sfiduciati. Sui confini tra fede e incredulità si può attuare uno straordinario apostolato del dialogo, del confronto, dell’esempio”.

L’urgenza di uomini e donne del confine, come siete voi con queste vostre iniziative, radicati ma liberi, gente di frontiera, è una necessità del nostro tempo. L’invito è a uscire. Anche mentalmente. Un invito ripreso con insistenza da papa Francesco. Che con i movimenti cattolici usò parole non equivocabili:

“Non chiudersi, per favore! Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose… ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno. Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Gesù ci dice: “Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo!” (cfr Mc 16,15). Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!”.

Non il lamento dunque: il lamento chiude, ma la fiducia, la fiducia risveglia. Credere nell’altro apre. Non vi siete mai chiesti perché Martini riscosse tanta udienza da parte del mondo laico, una udienza che  spesso gli attirava critiche dai benpensanti del mondo ecclesiastico? Perché l’interlocutore si sentiva accolto, accolto nella sua positività, per quel bene che lo abitava dentro. Uomo del dialogo. Che sa mettersi in ascolto. In ascolto per esempio dei giovani, altro mondo di confine.

Vorrei, a proposito di questo, leggervi un pensiero del  Cardinale Martini. Georg Sporschill, un  gesuita, che lavora con i bambini di strada e con i minori abbandonati, colui che pochi giorni prima che il cardinale morisse raccolse un sua testimonianza- testamento, anni fa realizzò un’intervista che raccolse nel libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme”. Nel corso dell’intervista pose una domanda al Cardinale: “Invece di essere lei a predicare, lei lascia che sia la gioventù a illuminarla. Un nuovo principio pastorale?”. Rispose il Cardinale: ”Nella gioventù ho trovato la più valida conferma di tale principio pastorale, sempre che di questo si tratti. Nella Chiesa nessuno è nostro oggetto, un caso o un paziente da curare, tanto meno i giovani. Perciò non ha senso sedere a tavolino e riflettere su come conquistarli o su come creare fiducia: deve essere un dono. Sono soggetti che stanno di fronte a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio. I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce dinamismo alla Chiesa: In tal modo l’affannosa ricerca di risposte ai problemi dell’uomo moderno si svolge al cuore della Chiesa” (Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, 2008, pag. 47).

Un atteggiamento questo che lo accompagnava sempre. Nei confronti dei giovani, ma anche di tutti, anche nei confronti di coloro che sono ai margini o fuori dalla della comunità ecclesiale. Lo percepivi da come li guardava. Come fratelli e non estranei, con affetto, come fratelli! Da cui imparare. Di qui il suo modo di pensare e di vedere coloro che sono sulla soglia o stazionano lontano. E sono la maggioranza. Mi ha sempre colpito il suo sguardo.

“Bisogna imparare a leggere la città” diceva “con occhio caritatevole, paziente, misericordioso, amico, propositivo, cordiale. Bisogna riconoscere  il bene profondo che c’è nel cuore di tanta gente della città e l’ansia o il bisogno di Dio che consciamente o inconsciamente sono in molti. “Io ho un popolo numeroso in questa città—dice il Signore” (At 18,10). Bisogna sentire l’azione forte dello Spirito in ogni angolo della città e in ogni volto anonimo che incontriamo”

E citava Giorgio La Pira che invitava a lavorare per la bellezza della città:

“Ogni città racchiude in sè una vocazione ed un mistero: voi lo sapete: ognuna di esse è da Dio custodita con un angelo custode, come avviene per ciascuna persona umana. Ognuna di esse è nel tempo una immagine lontana, ma vera della città eterna. Amatela, quindi, come si ama la casa comune destinata a noi ed  ai nostri figli. Custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole; curatene con amore, sempre infiorandoli e illuminandoli, i tabernacoli della Madonna, che saranno in essa costruiti; fate che il volto di questa vostra città sia sempre sereno e pulito. Fate, soprattutto, di essa lo strumento efficace della vostra vita associata: sentitevi, attraverso di essa, membri di una stessa famiglia; non vi siano tra voi divisioni essenziali che turbino la pace e l’amicizia: ma la pace, l’amicizia, la cristiana fraternità fioriscano in questa città vostra come fiorisce l’ulivo a primavera!”.

Gli occhi sul mare
al mio vescovo Carlo Maria Martini

E ora che il tempo
si è fatto breve
e il cuore si consuma
a trattenere la tua immagine
che sembra svanire lontano,
punto rincorso
all’orizzonte estremo,
ora che gli occhi
sono sul mare
come di chi saluta
pur se la vela è scomparsa,
come le pupille dei discepoli
perdute, sul monte,
in un cielo orfano
del volto,
ora so che anche per l’addio
di un pastore di chiese
può ferire e urgere
agli occhi la commozione
e dilatarsi
fino allo spasimare
delle vene dei polsi.
Sei scritto
come sigillo sul cuore
e sul braccio.

Hai amato queste strade
hai pianto
su questa città.

Ci lasci
-ed è testamento-
la lampada della Parola
e il pane del volto.