ERITREI A PORTA VENEZIA, UNA TESTIMONIANZA
Il passatempo preferito della gran parte dei milanesi è andare al ristorante. Ce ne sono di tutti i tipi e per tutti i gusti e, nonostante la crisi, se ne aprono sempre di più belli e sofisticati.
La cucina è di gran moda e ormai diversi quartieri di Milano sono un concentrato di locali; una tra le zone maggiormente sviluppate è senz’altro quella di Porta Venezia. L’età media degli avventori è tra i trenta e quaranta anni, ma vi sono locali ”alla moda” per ventenni e “classici” per chi ne ha cinquanta o sessanta.
Si vedono ragazze molto carine e signore eleganti, auto costose e moto potenti, menu intriganti e conti tendenzialmente “salati”.
Anche se non sono un assiduo frequentatore di questi locali, è bello vedere questa vita fatta di luci, locali curati nell’arredamento e nello stile. Ma Porta Venezia è stata dai tempi del fascismo il quartiere degli eritrei, per cui i profughi eritrei che transitano da Milano un po’ per non sapere dove andare, un po’ perché qui ricevono un po’ di aiuto, si concentrano lì. Sono quasi tutti ragazzi sui vent’anni, scappano da un regime militare in cerca di un futuro da spendere nei paesi del nord Europa. Milano è per loro una tappa di passaggio.
Sono veramente tanti, traboccano dai marciapiedi.
Io con un gruppo di amici volontari cerco di dare loro una mano perché il Comune non riesce a gestirli.
Il nostro compito è di portarli in diversi dormitori della città.
Li carichiamo sulle nostre auto e, armati di cartine e navigatori li portiamo in periferia dove almeno per una notte dormiranno sotto un tetto. Nessuno parla l’italiano, pochi parlano l’inglese, solitamente uno parla al telefono e gli altri stanno in silenzio.
Loro si fidano di me e io di loro; siamo degli sconosciuti, io non so niente di loro, potrebbero tranquillamente derubarmi, loro non sanno nemmeno dove li sto portando. Sono composti, io mi allaccio la cintura di sicurezza dell’auto e il passeggero sul sedile anteriore mi imita subito, ma non ha dimestichezza con il meccanismo e si fa passare la cinghia attorno al collo, io lo aiuto a districarsi e lui mi ringrazia con un cenno del capo. Durante il viaggio guardano fuori dal finestrino: Milano è bella di sera, non c’è traffico, è tutta illuminata e si intravedono i grattacieli di Porta Nuova. Passano i tram e le belle auto. “Good Milano”- mi dice il mio vicino- un po’ perché gli piace veramente e un po’ per ringraziarmi. Allora cerco di parlargli in un inglese elementare, ampiamente aiutato dai gesti, ma è difficile farsi capire. Siamo arrivati al dormitorio in una stradina buia di periferia. Escono dall’auto chiudendo la portiera in maniera incerta.
Mi salutano, ringraziandomi; sono stanchi perché hanno viaggiato tutta la notte precedente e capisco che una brandina è un buon posto per loro. Io e i miei amici ce ne torniamo a Porta Venezia; mentre guido penso a tutti i papà di questi ragazzi che sperano per il loro futuro, e forse sperano che qualcuno possa dare loro una mano, e penso che io forse non sono qui per caso. Tornati a Porta Venezia raduniamo tutti quelli che non hanno trovato posto in dormitorio e li accompagniamo nei giardinetti di via Vittorio Veneto dove passeranno la notte. Distribuiamo un po’ di frutta e latte.
Incrociamo qualche coppia elegante che non capisce che cosa stia succedendo. Non ho fatto molto, probabilmente ho spostato solo una goccia in un mare, ma mi sento contento per due motivi.
Il primo è perché, forse per merito mio, qualcuno un domani riferirà agli amici, alla futura sposa e ai futuri figli “Good Milano”, e poi perché penso ad un papà eritreo che forse ho fatto felice.
Luca Cozzaglio