ELEZIONI: TRA ILLUSIONI E ATTESE L’EUROPA RIPARTE
Di Lucio Bergamaschi
Quattrocentocinquanta milioni di europei hanno votato il 26 maggio scorso per il rinnovo del parlamento di Bruxelles. Il terremoto sovranista annunciato non si è verificato. Tre quarti dei voti sono andati a partiti più o meno convintamente europeisti segno che l’ideale di una riunificazione anche politica dei popoli del continente lanciato nel secondo dopo guerra da personalità cristiane come Adenauer, De Gasperi e Schumann e laiche come Altiero Spinelli è ancora vivo come sono vivi i timore per il rinnovarsi dei lutti che nel secolo scorso i nazionalismi hanno portato all’umanità. Un voto per la continuazione dell’esperienza di unità europea: era l’auspicio anche dei vescovi europei e siamo felici che si sia realizzato.
Non si può peraltro sottovalutare il profondo disagio che si è manifestato il 26 maggio soprattutto in Italia, Francia e Regno Unito: le istituzioni comunitarie sono percepite come distanti e burocratiche, più luogo di composizione di interessi lobbystici che di rappresentanza popolare e questo sta minando in molti la sensazione di far parte di un grande progetto comune, di un’impresa positiva per il bene nostro e dei nostri figli. La riforma degli organismi comunitari è urgente e dovrà essere profonda non solo di facciata per riuscire a ricucire un rapporto ormai sfilacciato: chi la porterà avanti? Non la Merkel che ha finito il suo ciclo, non la May umiliata in patria e inconsistente a Bruxelles, non i paesi di Visegrad che ad oggi si sono chiamati fuori da ogni dialogo sul futuro dell’Unione. Forse Macron se sarà capace di scrollarsi di dosso quella odiosa aria di superiorità transalpina e quella patina di gran commis dei poteri forti ritrovando un rapporto accettabile con il suo popolo.
E l’Italia? Il nostro Paese è stato uno dei fondatori dell’Unione e il nostro popolo il più europeista ma oggi il rapporto è gravemente compromesso e il voto lo ha manifestato con chiarezza. circa il 50% degli italiani ha dato la sua preferenza a partiti “sovranisti” sulla base dello slogan “prima gli italiani” anche se le asprezze iniziali si sono via via stemperate nel corso della campagna elettorale. Alla fine francamente non si capiva più bene quali fossero i partiti davvero contro l’Europa eccetto forse i neofascisti di Forza Nuova. Una partita che ha visto i cattolici piuttosto assenti: pochi gli eletti (Salini e la Pivetti in Forza Italia, Patrizia Toia nel PD) i due partitini identitari (Popolari e Popolo della Famiglia) hanno preso insieme meno dell’1% e in prospettiva un percorso tormentato per ritrovare l’unità perduta. con tali premesse e un Governo indebolito dallo squilibrio ormai evidente tra i due partner del “contratto” è difficile che l’Italia possa contare sui tavoli europei come nel recente passato quando aveva il Presidente del parlamento, l’Alto commissario per la politica estera e soprattutto il Governatore della banca centrale.
A proposito: a settembre avremo un disoccupato di lusso in più: che ne facciamo di Mario Draghi? Uno che il bene dell’Italia l’ha tutelato nei fatti non a parole convincendo i riluttanti tedeschi agli acquisti programmati di titoli di stato dei paesi ad altro deficit. Grazie al Quantitative Easing lo spread italiano è stato per tre anni sotto i 200 oggi è risalito a 300. Vuoi vedere che se Draghi si trasferisse a Palazzo Chigi scenderebbe di nuovo? Alla prossima!