CHIAMATI AD USCIRE
Come anteprima del giornale che uscirà Sabato prossimo, 5 Aprile, la conversazione con don Andrea Florio, cappellano dell’istituto clinico Città Studi. A don Andrea abbiamo chiesto una breve testimonianza sul significato dell’essere prete di periferia, per dirla con papa Francesco, e di come la sofferenza interroga ciascuno di noi.
Don Andrea, cosa significa essere cappellano dell’istituto clinico Città Studi?
Il cappellano è il prete di una parrocchia un po’ atipica, dove c’è gente che viene e che va. Ognuno vive un tempo di sofferenza, anche laddove si tratti di malattie non gravi o ampiamente curabili. Ognuno pensa di trovarsi di fronte ad uno snodo difficile della vita, vuole vincere sul dolore, su quel contrattempo che fa perdere tempo, su quel disagio che sembra non rendere abbastanza piena la nostra vita.
La clinica in cui mi trovo io non è molto grande, sono all’incirca 150 camere, ma sufficiente per avere un quadro di come l’uomo reagisce di fronte alla malattia. Si va da un approccio pragmatico, razionalista ad uno molto più spirituale, dove con spirituale non intendo necessariamente cristiano.
Nella Evangelii Gaudium papa Francesco dedica ampie riflessioni rispetto alla cura del mondo della fragilità. E’ ormai famosa la sua espressione di periferie esistenziali, intese dunque non solo nel senso territoriale del termine, ma soprattutto nel senso di quei luoghi dove si respira la solitudine e la fatica. In che modo si può annunciare il Vangelo in una periferia esistenziale come un ospedale?
L’ospedale è una periferia del dolore, un luogo che non siamo soliti inserire nei nostri itinerari, così come non inseriamo i detenuti, gli ignudi, quelli che hanno fame o sete. Deve succederci di andarci, deve succedere a qualcun che abbiamo a cuore. La periferia è un luogo fuori dall’itinerario, è fuori mano. Ecco il Vangelo ci chiama ad andare fuori, ad andare verso, a delocalizzarci, a muoverci dai nostri schemi e dalle nostre planimetrie per addentrarci dentro ambiti, orizzonti diversi. Sono molte le camere in cui entro nelle quali vengo subito associato al Papa, a Francesco, a colui che in quelle camere ci entra in maniera prorompente dai molti schermi che ci sono in giro. Hanno tutti parole entusiaste per il Papa, tutti percepiscono bene l’immagine delle periferie e dicono che finalmente viene detto ai preti di andare nelle periferie. Molti hanno incontrato un prete che non li ha capiti, che ha dato un’immagine di chiesa fredda, che va in fretta, burocratica, che non scalda il cuore. E a me chiedono di essere invece come dice il Papa. Non importa se preghino, se lo facciano, quanto lo facciano, è già importante che egli rappresenti un riferimento, un “tu” significativo per chi è malato, sfiduciato, con prospettive tristi anche solo sulla giornata da trascorrere.
Una parola sulla Pasqua…
Mi piace leggere almeno un pezzo di Vangelo con gli ammalati oppure citarli, parlarne con loro. Mi piace collegare la loro situazione in un letto di dolore a quella di Gesù Cristo in croce. Spesso questo discorso li porta, partendo dalla Parola di Dio, a riflettere sul Signore che permette la sofferenza, non interviene, ci abbandona o altre volte ci sostiene, ci guarisce. La vera risposta a tante loro (e mie) domande sta proprio nel cammino di fede, nel cammino attraverso la Parola calata nella vita. Parlando del Padre misericordioso oppure della Samaritana si arriva sempre ad uno snodo in cui c’è un cammino che viene ri-orientato, c’è un interlocutore che ci accoglie, ci sostiene, ci propone degli itinerari alternativi, ma soprattutto ci abbraccia, ci dà pienezza, ci toglie la sete. Il vero incontro liberatorio, la vera Pasqua di Resurrezione, il vero risorgere sta nella consapevolezza che tutto si può affrontare, quindi anche la sofferenza, se non ci si sente soli, se ci si sente abitati da quell’esperienza con, da quell’essere con. E allora non risorge solo il Signore, ma ognuno di noi, ogni giorno. Quando diciamo insieme una preghiera semplice come il Gloria, vedo che rimangono colpiti dal fatto che io sottolinei la parola “ora”. E’ troppo bello che quella preghiera non sia un automatismo, ma un sentire viva la Trinità ora, in questo momento, in questa stanza, in questo letto e in queste piaghe. Ora, ora e sempre, hic et nunc, non una giaculatoria astratta.